«Il
mondo dell'africano medio è diverso. È un mondo povero, sommario, elementare,
ridotto a pochi oggetti base: una camicia, una ciotola, una manciata di semi,
un sorso d'acqua. La ricchezza e la varietà del suo mondo non si esprimono in
forme materiali, concrete, palpabili e visibili, ma nei valori e nei
significati simbolici che l'uomo attribuisce agli oggetti più semplici, a
infime cose invisibili ai non iniziati». (Ryszard
Kapuściński)

Il
reporter polacco Ryszard Kapuściński nel suo libro 'Ebano', edito per la prima volta nel 2000 da Feltrinelli, offre un’immersione
profonda nel continente africano, e lo spirito con cui affronta il suo viaggio
si evince dall’incipit di un capitolo in cui scrive: «Sono venuto a Kumasi
senza uno scopo preciso. Di solito si pensa che sia sempre bene avere uno scopo
preciso, nel senso di prefiggersi un obiettivo e perseguirlo. D’altro canto
però, è una situazione che impone fatalmente dei paraocchi, perché si finisce
per vedere solo il proprio scopo. E invece la marcia in più offerta da una
visione quanto mai ampia e profonda può rivelarsi molto interessante e
importante. Entrare in un mondo nuovo è come entrare in un mistero che può
nascondere un’infinità di labirinti, di recessi, di enigmi e di incognite».
Trasporrei
questo concetto nella vita di tutti i giorni ed ecco annullata la regola che:
bisogna sempre avere un obiettivo nella vita. Certo gli obiettivi servono a
concentrarsi e a motivarsi, in un certo senso, ma come scrive Kapuściński, nello
stesso tempo impongono dei paraocchi, che vanno ad ostacolare le scoperte che
ciascuno di noi ogni giorno potrebbe fare. È come quando si è in una nuova
città e si vuol a tutti i costi seguire un itinerario ben preciso, certo questo
ci farà scoprire il monumento pluri-fotografato, la famosa chiesa, la
meravigliosa cattedrale, ma magari non ci premetterà di scoprire i vicoli più
stretti e nascosti dove aleggiano gli odori e i sapori di quella città, dove si
può incrociare lo sguardo di una persona del posto.
Ecco
che il libro 'Ebano', non parla
dell’Africa in sé ma di alcune persone che vi abitano, e il reporter sostiene
l’impossibilità di descrivere il continente, perché in realtà l’Africa non
esiste, Africa è una pura denominazione geografica.
Il
libro ripercorre alcuni aspetti storici del continente, come ad esempio il
genocidio in Uganda o la prima guerra sudanese, ma dà prevalentemente voce alle
persone che il reporter ha incontrato sulla sua strada, e da queste voci
emergono le forme della cultura africana.
Gli
spazi sotto gli alberi che nei villaggi sono quasi sacri, diventano aule
scolastiche dove il maestro riunisce i suoi alunni, o una sorta di sala
riunioni dove si riuniscono a consiglio gli adulti, o semplicemente una zona
d’ombra durante le ore pomeridiane.
Kapuściński
incontra i baganda e i loro conterranei karamojong e in loro scopre opposte
visioni. I baganda tengono molto alla pulizia personale e indossano sempre
vesti pulite e curate, coprendosi le braccia fino ai polsi e le gambe fino alle
caviglie, al contrario i karamojong si ritengono belli solo se nudi, e la loro
avversione per gli abiti nasce anche da un altro motivo e cioè osservarono che
in passato ogni europeo che giungeva fino a loro si ammalava e dedussero che la
causa delle malattie fossero i vestiti.
Il
reporter descrive inoltre i differenti riti funebri tra i bantu e i tuareg,
mentre i primi seppelliscono i morti nei campi vicino le loro case, a volte
addirittura sotto i pavimenti delle loro capanne, per far partecipare
simbolicamente i defunti alla vita dei vivi, per consigliarli, vegliarli o
anche castigarli. I tuareg, dalla natura più nomade, invece scelgono di
seppellire i loro morti in punti casuali del deserto badando a non ritornare
mai più in quel luogo.
Un
altro aspetto particolarmente curioso di cui si racconta, riguarda l’arte di
raccontare: «In Europa a ogni guerra sono dedicati scaffali di libri, archivi
zeppi di documenti, sale speciali nei musei. In Africa non esiste niente del
genere. Per lunga e terribile che sia, qui la guerra sprofonda rapidamente nel
dimenticatoio. Appena finita, le sue tracce spariscono: bisogna seppellire
subito i morti, costruire nuove capanne al posto di quelle bruciate». In altri
casi invece, seppur la si volesse raccontare, la guerra si combatte su vasti e
tragici campi di morte irraggiungibili dai media, così che il resto del mondo
resta nella completa ignoranza circa conflitti di proporzioni gigantesche.
Le
pagine di 'Ebano' raccontano ancora
dell’indole collettivistica degli africani, delle tradizioni, dello scambio,
del cammino e dell’imponente natura.
26.08.2013
Sara
Fiorente